LO SGUARDO DI GIORGIO DIRITTI SULLA MONTAGNA
Etica e responsabilità sono parole chiave del cinema di Giorgio Diritti. Una filmografia, la sua, non particolarmente ricca di titoli, poiché l’avvio di ogni film viene da un bisogno di dire, di raccontare una vicenda, un personaggio sullo schermo, con parole e visioni, nella volontà di contribuire a un cambio di sguardo sul mondo. Quindi ricerca, confronto, dedizione, dialogo, coerenza storica, vita reale, facce, luoghi. Su tutto (in primis) il significato che la storia riverbera sul nostro presente. Sul nostro essere uomini di oggi. Ciò in piena coerenza con la lezione del Maestro, Ermanno Olmi, che in quel cenacolo che fu Casa Serena, a Bassano del Grappa, ci condusse – lui con Mario Brenta e Toni De Gregorio – in un’esperienza complessa, formativa, per certi aspetti ipnotica, che fu detta Ipotesi Cinema, postazione della memoria.
Il Maestro scendeva da Asiago, ci parlava della vita, delle cose che contano, dei valori, di responsabilità. Della nostra responsabilità come autori. Ipotesi Cinema lasciò il segno e fu là, all’inizio degli anni Novanta, che ci conoscemmo. E fraternizzammo. Diventammo amici. Non subito. Fu un mio soggetto, quello de Il vento fa il giro a fare scoccare la scintilla. Giorgio se ne innamorò e fu il suo primo lungometraggio di finzione. La vicenda che lo ispirò, la conoscono in molti. L’avevo vissuta in prima persona nel paese sulle Alpi dove vivo tuttora.
Era stato il grande sogno di vedere rinascere un paese svuotato dalla grande migrazione del Dopoguerra: contadini, montanari, che si erano fatti operai a Torino e nell’hinterland padano. E, quassù, le case in pietra, intere borgate cadevano a pezzi, “pompei alpine” le avevo chiamate. E prati e campi non più falciati, non più coltiva- ti, erano invasi dai rovi. Nel gennaio del 1993 era giunta dai Pirenei una giovane famiglia di forestieri. Cercavano un posto così: per vivere in pace e allevare i quattro figli. Erano contadini, pastori, con vacche e capre. Gente che viveva di terra. Per noi pochi rimasti fu una promessa di futuro.
Portare a termine il film fu una grande fatica, ma Giorgio, tenace, sapendo di affrontare un tema che dialogava col presente, seppe superare ogni ostacolo. Dapprima il film uscì nel disinteresse generale, poi, per le vicende della vita, che forse sono nei grandi e piccoli disegni di Dio, Il vento fa il suo giro divenne un caso. Fu un’assoluta novità nel panorama del cinema italiano. Ne Il vento fa il suo giro Giorgio aveva fatto la scelta di far parlare ai protagonisti (tutti scelti fra non attori) il dialetto occitano del luogo. Ovviamente la scelta mi piacque, essendo io, dai miei lontani vent’anni - lo sono tuttora - uno strenuo militante per la difesa e la rivitalizzazione delle lingue cosiddette di minoranza.
Giorgio attingeva alla vita reale, da questa traeva ispirazione, e la lingua ne era parte. Così come dal linguaggio del corpo: posture, modalità di interloquire, atteggiamenti in cui si riflettono caratteri, gerarchie e una visione interiore, nel bene e nel male. Anche in seguito fu coerente con questa scelta. Lo è stato nei tre film che il Film Festival della Lessinia propone in questo omaggio al Cinema di Giorgio Diritti. Dopo l’occitano de Il vento fa il suo giro, il bolognese appenninico fu lingua prevalente ne L’uomo che verrà, mentre il gergo dei nomadi Jenish è in Lubo, ultimo film in ordine di tempo. Scelta che non è venuta meno ne Un giorno devi andare girato in Amazzonia, e nel pluripremiato al David di Donatello, Volevo nascondermi, ispirato alla vita di Toni Ligabue, il pittore “matto” della Bassa padana, un fossile dei tempi in cui l’uomo dialogava con la natura e ne conosceva il linguaggio. Un reietto immaginifico, che dipingeva tigri, gorilla, leoni e giaguari non nella giungla ma tra le lanche del Po.
Potrei ora dire dei tanti premi vinti da Giorgio, dei tanti festival e pareri lusinghieri di critici del cinema, ma la mia amicizia per il regista bolognese, sodale di tante altre avventure, mi induce a ricordare come ai miei occhi la critica di più grande valore, la medaglia che vorrei apporre al suo petto, è il giudizio dei miei montanari, della mia gente delle valli occitane, non certo frequentatrice assidua di sale di cinema, che, a distanza di oltre vent’anni, quando parla di un film non allude a nessun’altra opera di un grande regista, sia esso italiano o straniero. Per loro “il film”, l’unico che portano nel cuore, il solo che li ha fatti riflettere sulla condizione umana e che li ha indotti (talvolta) a mutare sguardo è Il vento fa il suo giro, regia di Giorgio Diritti.
Fredo Valla